La convivenza aiuta una relazione di coppia o no?
Carlo Verdone l’aveva ipotizzato nel film “L’amore è eterno finchè dura” e l’aveva chiamata la “teoria degli istrici”: insieme ma non troppo vicini. Insomma, la domanda è: la convivenza è l’idea migliore per far funzionare una relazione?
Lucy Beresford, psicoterapeuta, conduttrice, ma soprattutto autrice del libro “Happy Relationships”, analizza da vicino la situazione. Secondo lei le relazioni LAT (Living apart together) permettono “un equilibrio tra indipendenza e impegno emotivo”. Ma è proprio l’indipendenza il problema, secondo la Beresford la trappola è dietro l’angolo, convivere non significa essere salvati, o perlomeno non esserlo regolarmente.
“Emotivamente, – scrive l’autrice – dobbiamo essere resilienti. È l’opposto della co-dipendenza e del collasso con il tuo partner. Vivere insieme può rendere più facile trovare lo spazio di respiro in una relazione, ma sostenere una rete di supporto e perseguire interessi esterni può creare lo stesso senso di spazio e individuazione in una dinamica convivente”.
Insomma chi convive con il proprio partner va bene, chi non ci convive va bene lo stesso. Beresford pensa anche che gli scenari LAT mostrino un sano realismo lontano dalla tradizionale “fiaba di matrice amorosa”, inutile comportarsi come fossimo protagonisti di una commedia amorosa anni ’90, la realtà è tutt’altra ed è bene esserne consapevoli.
Contro la Bereford si schiera Simon Duncan, professore emerito di politica sociale all’Università di Bradford, che riguardo le relazioni LAT ha scritto “Reinventare le coppie”, che va molto più cauto riguardo definizioni definitive circa il cosa va e non va nella convivenza, più che altro cosa è giusto e cosa sbagliato. “Spesso – scrive Duncan – la scelta di vivere separati può essere una “preferenza negativa”, una scelta per preservare la relazione quando vivere insieme è insopportabile”.
Leggi l’articolo qui, fonte: https://www.agi.it/lifestyle/convivenza_aiuta_relazione_coppia-6852117/news/2020-01-09/
Il 2020 potrebbe essere l’anno in cui tornano di moda i cappelli
“Un cappello è essenziale per completare l’outfit. E’ il miglior modo per esprimere la tua personalità”. Lo scriveva Christian Dior nel 1954 e a sessantasei anni di distanza il dogma modaiolo vergato nel suo “The little dictionary of fashion” continua ad essere inattaccabile. Lo dicono i dati finanziari, con le aziende italiane dei cappelli immuni dalla crisi (fatturato stabile a 161 milioni nei primi nove mesi del 2019, importazioni e soprattutto esportazioni in crescita) e lo suggeriscono anche certe immagini scolpite nell’anno che ci siamo lasciati alle spalle: da un Brad Pitt da urlo sormontato da coppola al Festival di Venezia a Giorgia Meloni che si è eccezionalmente piegata al rosso per il berretto di lana della foto capodannesca su Instagram, passando per il sindaco di Milano Beppe Sala con il cappellino da Babbo Natale negli auguri in stile giocatore di curling, il berretto rosa shocking con cui Chiara Ferragni ha chiuso l’anno a Madonna di Campiglio e il fiabesco cappello di Pinocchio riproposto da Matteo Garrone al cinema. Senza dimenticare i“must have” dell’estate 2019, i cappelli di paglia-tormentone proposti sotto l’ombrellone da vere e sedicenti influencer.
Quel che è certo è che accessoriarsi la testa, anche se non ai livelli della Regina Elisabetta, secondo leggenda dotata di cinquemila cappelli, sarà un inevitabile must del 2020 e le proposte sono parecchie, per maschi e femmine, come il “bucket hat” di Dior, il cappello da pioggia rivisitato (in vernice, tartan e perfino con la veletta) e il cappello musicale per tecnodipendenti ideato da Hanpure: un berretto di lana accessoriato di bluetooth e microfoni con tasti per il volume pausa sui lati. Per capire come va il mercato e non commettere fatali errori, AGI si è rivolta ad Andrea Troncarelli, titolare dell’omonima storica cappelleria romana che dal 1857 in via della Cuccagna, all’ingresso di piazza Navona, ha messo cappelli in testa ad Al Gore, Silvio Berlusconi, Mick Jagger e più recentemente Jude Law, tra poco nel New Pope di Paolo Sorrentino, alla nuova Eva Kant dei Manetti Bros Miriam Leone e a Milly Carlucci, appassionata di baschi.
Quali sono i cappelli maschili di tendenza per il 2020?
Ci sarà un grande ritorno agli anni Quaranta, con i cappelli di feltro a falda larga e nastro alto, stile Borsalino. Un discorso a parte va fatto invece per i giovani, che a parte l’immarcescibile zuccotto di lana, si stanno avvicinando ad altri modelli di tendenza, unisex, sempre stile vintage.
Quali?
Su tutti la coppola spinta sul mercato dalla serie tv “Peaky Blinders”, ambientata dopo la prima guerra mondiale a Birmingham, protagonista una gang, i “Peaky Blinders” appunto che nasconde una lametta nel risvolto della coppola. E’ un cappello richiesto da ragazzi e ragazze, come quello da pescatore appena rilanciato da Dior in vari tessuti.
Le signore che non giocano a fare le ragazzine cosa metteranno in testa, invece?
“La cloche di tessuto, stile Audrey Hepburn in ‘Sabrina’, con il nastro tinta su tinta. Il colore femminile imperate è il rosso ciliegia, per gli uomini vanno come sempre il nero e il marrone ma ci sarà anche una riscoperta del beige.
A proposito di cinema, quale cappello e quale relativo attore l’hanno colpita nel 2019?
Il “Borsalino” di Edward Norton in “Motherless Brooklyn”.
Ma quanto si deve spendere per assicurasi un cappello pregiato?
“Dai 70 euro circa della coppola ai 300 del Borsalino”.
Passiamo al galateo, secondo il bon ton quando si deve mettere il cappello e quando invece bisogna toglierlo?
“Gli uomini devono togliere il cappello quando entrano nei luoghi chiusi, dalle chiese ai ristoranti e dovrebbero alzarlo, un tempo si usava così, quando incontrano una donna camminando all’aperto. Le donne invece possono tenerlo anche nei luoghi chiusi, sono obbligate a toglierlo solo quando si siedono a tavola e al cinema. Nei matrimoni invece si tiene sulla testa anche durante il ricevimento”.
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